La poesia è un'arte triste? Sembra di sì, a leggere la quantità dei poeti contemporanei. Sembra addirittura che la poesia possa essere definita come l'arte dello sfogo del dolore, della confessione delle colpe, del rammarico per il tempo che passa… Ma non è sempre così. Per fortuna! La poesia di Sandro Buoro è anche tutto questo, ma la sua sostanza è un'altra. Ed è una sostanza vitalistica, sensuale. C'è la memoria del poeta, che fonde nei versi i ricordi: la Maremma, il padre contadino, la madre sempre indaffarata, la scuola, la bicicletta, i viaggi… Ma c'è anche il presente: il giardino con tutte le sue varietà, il cibo, le carezze, le notti e i giorni, il cielo… Buoro osserva il tutto con occhi voraci. Vuole tutto. Afferra famelico gli eterni che si affacciano al suo cono di luce. E li divora, facendoli diventare carne di se stesso. La poesia è il suo modo di cibarsi del mondo. Versi in prevalenza lunghi, assorbenti, pieni di cose come le calze della Befana di una volta. Semplici in apparenza ma intrisi di cultura umanistica, di richiami letterari. Suggestioni colte trasfuse. Versi che a volte alternano slanci "sublimi" a notazioni delicatamente "comiche". "E allora vieni, prendi coraggio/e una sera inoltrata di quarantena vieni qui/dove aspetta una magica soffitta ripulita/senza polveri sottili ragnatele e tarli molesti/ma libri di magia, mortai per erbe lontane/alambicchi di storie non scritte, misteriosi/profumi di viaggi mai consumati/e la vista del mondo che è finestra sul giardino".